E voló via …

Guardando il cielo stellato dal finestrino dell’auto la mente le torno là. A quella giornata di ottobre. Quando aveva preso la decisione. Una decisione giusta ma che le aveva lasciato l’amaro in bocca.

Ella guardò le stelle e non poté fare a meno di notare quanto esse brillassero. Quanto ogni cosa fosse rimasta esattamente la stessa, anche se dentro di lei tanto era cambiato. Erano mutate tante cose da allora. Alcune persone l’avevano ferita. Le avevano graffiato il cuore. non erano andate oltre la scalfittura per via della corazza che attorniava quel cuore delicato e un po’ ammaccato. Aveva tutto attorno come un cespuglio di rovi in modo tale che anche le persone più amate non potessero arrivare a ferirla troppo da vicino. Una sua precauzione. Una premura di cui non era più riuscita a fare a meno.

Il pensiero tornò alle stelle. Sperava fortemente che l’avrebbe perdonata. Che avrebbe capito che anche quello era stato un gesto d’amore. Sperava di avergli dato una seconda possibilità. Condita da amore.

Strinse i pugni stropicciando il pantalone. Due lacrime le rigarono il volto. Le aveva frenate talmente a lungo in quegli ultimi mesi. Ma il buio e il volto rivolto al finestrino celavano tutto. La luce dell’oscurità era dalla sua. Suo marito, accanto a lei, guidava. Occhi puntati sulla strada e la musica forte che echeggiava nell’abitacolo fecero sì che non si potesse presentire nulla.

Era infinitamente grata di averlo accanto a sé. Non ci avrebbe scommesso. Eppure si era rivelato una presenza solidissima. Ferma. Decisa.

Le lacrime presero a sgorgare copiose. La notte le inghiottì. Le ruote correvano sull’asfalto e lei vide passarle davanti ogni attimo velocemente. Non riusciva ad afferrarli e tenerli stretti a sé. Chiuse gli occhi. La speranza acuì le lacrime. Quando li riaprì le sembrò che dall’alto una stella brillasse un po’ più rispetto alle altre. Si voltò verso lui. Prese la mano che lui le porse e la strinse forte. La macchina venne inghiottita dall’oscurità della notte. Sparì.

Turgido

Anna si avvicinò allo specchio. Le ci vollero una manciata di secondi per trovare il coraggio ad alzare il volto verso la superficie riflettente. Sobbalzò. Aveva un grosso ematoma che le partiva dal sopracciglio destro ed arrivava fino allo zigomo dello stesso lato. L’occhio azzurro creava uno strano contrasto con il violaceo della botta. Provò ad avvicinare la mano, quasi incosciente, a toccare la ferita.

-Aaahh!-

Un urlo le uscì spontaneo dalla bocca. Involontariamente si portò una mano alla cavità. Lui non era in casa. Poteva permettersi di piangere, di urlare. Avrebbe, però, dovuto cercare di deviare il corso delle lacrime dalla parte destra del volto. Avevano preso a scendere copiosamente. Si rifiutava di scendere in farmacia da Maura. Era sicura la donna si sarebbe preoccupata nuovamente e l’avrebbe costretta ad affrontare suo marito.

Maura però non sapeva che, non appena lui era uscito per andare al bar a bere, quella mattina presto, Anna aveva iniziato a fare le valigie. Poca roba. Lo stretto indispensabili. Gli effetti personali. Aveva da poco aggiunto tutto il suo beauty case e la trousse dei trucchi. Al momento non se la sentiva di coprire la ferita con del fondotinta. Temeva la reazione della pelle già martoriata. Si recò in cucina nello scaffale più in alto. Estrasse la pentola più grande. Dalla stessa tolse le mazzette che ci aveva riposto per un periodo di tempo imprecisato. Erano abbastanza. Abbastanza per prendere il primo pullman all’alba del giorno dopo. Abbastanza per cambiare nome e ricominciare da capo. Abbastanza per sparire. Abbastanza per essere dimenticata. Cancellata.

Chiuse la porta dietro di sé e si avviò lungo il vialetto verso la casa della sua vicina. Bussò.

Anita aprì la porta. Si portò una mano alla bocca per fare morire l’espressione inorridita che le si era formata. Guardò Anna. “È ora?”

Anna annuì. L’abbracciò forte e le passò le due valigie. Senza voltarsi indietro ripercorse il vialetto verso casa. Quella sarebbe stata l’ultima volta che l’avrebbe attraversato in quel senso. Aveva organizzato il piano settimane addietro. Perlomeno a livello pratico. Alle 4 del mattino successivo si sarebbe svegliata …con le prime luci. Avrebbe raccolto le ultime cose e si sarebbe diretta verso casa di Anita, dove Matteo l’avrebbe caricata in auto e l’avrebbe condotta alla stazione dei pullman più vicina. Avrebbe preso il mezzo, tremante e angosciata dall’idea di averlo svegliato, e non si sarebbe voltata indietro. Matteo le aveva comprato un telefono usa e getta col quale avrebbe potuto contattarli non appena si fosse messa in salvo e avesse deciso la cittadina lungo l’oceano nella quale fermarsi.

L’oceano….. Le dava un senso tale di libertà e infinite possibilità che non aveva avuto alcun tipo di esitazione quando aveva cominciato a pensare a quale pullman prendere ed in quale direzione andare. Sarebbe stata abbastanza lontana.

Ora non le rimaneva che cambiare aspetto. Lui sarebbe rincasato ubriaco intorno a mezzanotte.

Avrebbe dovuto resistere solo quattro ore con lui nei paraggi.

-Mogano- lesse sulla confezione della tintura.

Anna sciolse la sua lunga e lucente chioma bionda. L’unica cosa che luccicava ancora in lei. Si osservò per qualche minuto. Anna sarebbe morta da lì a poche ore. Al suo posto, Alba. Disse addio ai suoi capelli. Dovette ricacciare indietro le lacrime. Le aveva portato via tutto. Ogni parte di sé. Finqiando non aveva capito che era già morta comunque. Di conseguenza doveva tentare il tutto per tutto.

Quando si tirò su, ecco Alba. Folta chioma mogano. Si calcó gli occhiali da vista sul naso. Ora sembrava una qualunque 35 enne con una vita normale, quasi noiosa.

Si preparò qualcosa da mangiare dopodiché si vestì con gli abiti che aveva scelto e si mise sotto le coperte simulando una dormita. Quando lui rincasó lei si paralizzò. Lo sentì infilarsi sotto le coperte. Dopo poco iniziò a russare forte. L’alcol lo aveva steso. Alle 4 si alzò. Terrorizzata all’idea di fare rumore. Si chiude la porta della camera dietro di sé. Passò in bagno. Dopodiché prese da dietro il divano l’ultima borsa. Accelerò verso la porta d’ingresso. La aprì. Si guardò indietro con l’ansia una mano l’afferrasse e la riportasse in casa. Iniziò a correre in direzione della casa dei vicini. La porta si aprì. Anita l’abbracciò forte e caricò quell’ultima borsa sulla macchina. Le chiuse la portiera e Matteo mise in moto. Anna chiuse gli occhi. I battiti del cuore non la smettevano di scandirle il tempo.

O

Ferma

“It must have been love

Buy it’s over now

Lay a whisper

On my pillow…”

Zoe si aggirava distesa, calma, nel reparto surgelati. La musica nella sue orecchie e la voce di Roxette nella testa. Canticchiava. Chi aveva voglia di mettersi a cucinare una volta rincasata da lavoro?

“Pizza express salamino verace €3,50” lesse ad alta voce. Quella sera necessitava di una golosità.

Aprì la porta frigo ed estrasse il cartone della pizza.

“Aaaah!”

“Ahhaah!”

Zoe arrestò la musica dal suo cellulare per cercare di afferrare il significato di quelle improvvisa grida. Stava cercando di captare qualcosa quando intravide tra le corsie delle mosse leste, fulminee.

Dei ragazzi correvano nella sua direzione cercando di disperdersi. Urlavano parole confuse. Una donna piangeva. Un ragazzo incespicò e cadde poco più in là.

Uno sparo. Zoe impallidì. Il telefono le scappò di mano. Atterrò sul pavimento emettendo un suono pungente, acuminato. La sua cena si riversó sullo stesso.

Ad un tratto una scena inverosimile. Improbabile. Illogica. Ma vera.

Una coppia di uomini visibilmente contrariati agitavano in aria una pistola mentre esortavano con l’ausilio di parole minacciose il cassiere. Zoe si accucciò velocemente a terra cercando di recuperare il telefono caduto poco più in là.

Ad un certo punto lo trovó. Allungando la mano per afferrarlo urtò qualcosa. Era nero, lucido e robusto. Uno scarpone. Il cuore le si fermò in gola. Raccolse tutto il coraggio che aveva per alzare lo sguardo sopra di sé. Uno degli uomini mascherati stava lì: svettava sopra di lei. Calciò via il cellulare. La fissò con occhi gelidi, grandi, scuri. Indirizzò l’arma verso di lei. In quell’istante Zoe non avvertì più nulla attorno a sé. Il cuore le martellava nel petto. Le sue pulsazioni avevano creato una sorta di schermatura tutt’attorno. Sentiva solo le orecchie lederle e la testa comprimerla sempre più. La vista le si annebbiò. Sopra di lei, il volto quasi del tutto coperto dell’uomo le appariva pixellato. Indistinguibile. Irriconoscibile. Vago.

L’uomo spinse verso l’alto il caricatore perché Zoe fu quasi certa di aver sentito un -click- piuttosto forte, inconfondibile. Levò la sicura abbassando la levetta nella parte alta e posteriore della pistola.

Il movimento metallico che seguì fu quello della parte superiore dell’arma tirato indietro per caricare la canna con le munizioni.

Passò un lasso di tempo incommensurabile.

Un urlo dietro di lei. Sembrava quello di un ragazzino. Straziante. Lacerante. Zoe rimase impietrita. Non riuscivano ad uscirle versi dalla bocca. Aveva poca saliva. La bocca asciutta. Le corde vocali dovevano essersi paralizzate. L’uomo prese la mira. Tirò verso di sé il grilletto. Zoe strinse i pugni e chiuse gli occhi. Nella sua testa il buio.

Si udì uno sparo.

Buio

Era sollevata di averla persa.

Non era ancora pronta. Non si sentiva al sicuro. Per accogliere la sua bambina voleva ci fossero tutti i presupposti che aveva sempre desiderato. Una casa solida. Costruita con mura importanti. Spesse. Due braccia forti che la proteggessero e amassero sua madre.

Guardò la sedia vuota. Una lacrima le rigò il volto. Nulla stava andando come se lo era immaginato. Non aveva uno scopo. Si sentiva completamente svuotata ma allo stesso tempo carica di rabbia come una pentola a pressione pronta ad esplodere.

Si toccò il ventre. “Ti prometto, piccolina, che verrai al mondo solo quando sarò pronta e tutto attorno a me sarà in ordine. Meriti tutto ciò che ho avuto e che non ho avuto.”

Si voltò verso la finestra. Imperversava un tempaccio, là fuori. Tuoni, lampi. Grigi, neri. Nebbia fitta che le impediva la visuale oltre la staccionata di casa.

Si poggiò con la schiena contro il muro freddo di quel pomeriggio minaccioso d’autunno.

“Arriverà”, pensò. E andrà tutto, finalmente, bene.

Nebbia

“Silenzio in aula!”

Il martelletto del giudice batté fragorosamente sulla panca. Zoe sussultò. Non si era accorta di essere andata via. Per quanto? 3.. 5 minuti? Non di più.

La sua attenzione tornò alla toga del giudice: una donna sulla cinquantina. Inflessibile, rigorosa. Come l’aveva definita? In modo conciso, quasi lapidario aveva affermato “la non estraneità dell’autrice dell’efferato delitto.”

La sua mente vagò a quel piovoso tardo pomeriggio di Gennaio. Era rincasata prima. Il notaio l’aveva mandata a casa un’ora prima perché aveva dovuto prendere all’ultimo momento un treno per questioni familiari.

Era così compiaciuta di ciò. Era stato un periodo poco disteso a casa. Paul non c era mai. Non solo fisicamente. Zoe si sentiva sola. Abbandonata in quella casa da poco ristrutturata e rimessa a nuovo. Trovava conforto nel suo piccolo orticello. Sembravano le uniche cose che andassero secondo i piani, in quell’ultimo periodo. Crescevano rigogliose, le varie piantine. Cullate dai raggi del sole.

L’iniziale entusiasmo aveva lasciato il posto a mestizia e sconforto.

Fece un salto dal verduriere per assicurarsi di avere tutto l’occorrente per preparare la ratatouille ed il suo dolce preferito. Infilata la chiave nella toppa della porta di casa, piegò la maniglia e spinse in avanti. Arrivata all’ altezza del divano vi poggiò la borsa e i sacchi della spesa. Si diresse al bagno e si guardò allo specchio. Si sciacquò la faccia e si tamponò il viso con una salvietta pulita.

Dei gemiti come ovattati attirarono la sua attenzione. Assolutamente disorientata le seguì, in direzione della camera da letto. Che strano, pensò. Se Paul fosse rincasato prima glielo avrebbe detto. Aprì piano piano la porta. Rimane tutto’ora offuscata la sequenza di azioni che si succedettero. Paul era sul letto. Abbracciato ad una giovane donna sulla trentina. Avvolti solamente da un lenzuolo sembravano avere molta confidenza ed intimità. Conversavano alternando risatine a scambi di sguardi languidi.

Come aveva potuto? Eppure l’aveva vista piangere attaccata al muro del bagno, sul pavimento gelido dopo l’ennesimo aborto. L’aveva vista addormentarsi piangendo ogni sera per mesi. Aveva visto le sue ossa spuntare sempre più in modo evidente sulla schiena e sull’addome. Era dilaniata. Scattò in avanti. Con la mano destra afferrò la cintura che era stata buttata disordinatamente sulla sedia. Fu una manciata di secondi.

Mani rosse. Segnate. E il collo di Paul violaceo. Un’atmosfera plumbea, opprimente. Le urla piangenti della donna in piedi dall’altra parte della stanza che comunicava con il 911.

“Signorina Smith.”

Nuovamente fu costretta a tornare alla realtà.

“Signorina Smith le riformulo la domanda.”

Raptus. Così i dottori avevano etichettato l’accaduto. L’omicidio.

“Come si dichiara?”

Inspirò. Aspettò che i polmoni si riempissero d’aria. Trattenne il fiato qualche secondo. Espirò.

“Colpevole.”